sabato 22 luglio 2017

L'aliquota ottimale e la ricerca del Sacro Graal

Nel recente dibattito sulla flat tax è stata avanzata un’obiezione incentrata sull’ottimalità dell'imposta. 
Perché si dovrebbe voler preferire un’imposta ad aliquota piatta, anziché ad aliquote graduate, e perché mai l’aliquota dovrebbe essere fissata al 25 per cento e non, invece, al 15, al 20, al 35 per cento o a una diversa altezza?

La questione di quale sia la “ottimale" scala e altezza delle aliquote ha a che fare con un problema di efficienza della tassazione, giacché si propone di ricercare le aliquote meno distorsive sui comportamenti di produttori e consumatori. 
La teoria dell’Optimal Taxation, a partire da Mirlees (ma prima ancora con Ramsey), ha cercato di fornire una risposta mettendo in relazione le aliquote alla diversa capacità degli individui, alle loro preferenze e funzioni di utilità, alla distribuzione ed elasticità dei redditi, alle caratteristiche personali come età, genere, salute, istruzione ricevuta, etc. (“tagging”), alla funzione redistributiva desiderata, e altro ancora.

I risultati raggiunti sono stati sorprendenti: alcuni lavori hanno dimostrato l’ottimalità di una flat tax con un sussidio universale agli individui meno dotati (più poveri), un po’ come accade nella proposta dell’Istituto Bruno Leoni. Altri studi invece suggeriscono l’ottimalità di una struttura con aliquote marginali più elevate sugli individui ad alto reddito, specie nei casi in cui esista una forte disuguaglianza nella distribuzione delle capacità tra gli individui (che non si conosce, e viene approssimata dai loro redditi effettivi). 

I risultati sono in ogni caso assai controversi, e per questo è difficile trasferire i risultati della teoria alle tax policy, anche se si può riscontrare nell’ultimo trentennio una generalizzata tendenza alla riduzione delle aliquote marginali più elevate e a un appiattimento delle tax schedules

Incertezza e complessità insite nell’optimal taxation non sono però l’unica ragione della sua dubbia utilità concreta. Il fatto è che l’efficienza o la mancanza di distorsioni non sono l’unico parametro che viene in rilievo nelle decisioni di politica tributaria: entrano infatti in gioco altri valori, come l’equità orizzontale (cioè la parità di trattamento tra redditi di pari ammontare, indipendentemente dalla fonte del reddito o dagli status dell’individuo), l’opportunità di utilizzare in certi frangenti il principio del beneficio, la difficoltà di proporre all’opinione pubblica soluzioni controintuitive e che non verrebbero comprese.

I tributi meno distorsivi in assoluto sono ad esempio le lump-sum taxes, come il testatico o focativo: un’imposta in misura fissa uguale per tutti i contribuenti. E’ evidente che un tributo di questo tipo non sarebbe oggi tollerabile, dopo che nella letteratura economico-giuridica e nella prassi costituzionale ha fatto ingresso il principio della capacità contributiva (ability principle) come presupposto e parametro della tassazione.
O si pensi all'approdo, indiscusso, cui l’optimal taxation è giunta con riguardo all’adozione di un’aliquota zero sui redditi di capitale, difficilmente digeribile sul piano dell’equità e della parità di trattamento rispetto ai redditi di lavoro.

Alla domanda se un’imposta con aliquota piatta (e con esenzione dei redditi minimi e sussidio per gli incapienti) sia un modello impositivo ottimale non si può dunque dare un’univoca risposta, così come non lo si può dare per nessuna scala di aliquote progressive. 

Sarebbe però sbagliato rigettare per questa sola ragione l’ipotesi: come osservato, la lezione dei modelli di Mirlees ed altri è che “proposals for a flat tax are not inherently unreasonable. In part this is due to the many sources of uncertainty that make it hard to pin down an optimal marginal tax schedule. But it is also due to the suggestive evidence that simulations can lead to optimal tax schedules that are near, both in terms of tax rates and welfare impacts, to a flat marginal tax schedule. If a flat marginal tax schedule has benefits outside the model, such as administrative semplicity, enforceability, and transparency, the case for it is strengthened” (Mankiw, Weinzierl, Yagan, Optimal Taxation in Theory and Practice, 2009).

A ciò si può aggiungere, guardando al caso italiano, quanto segue:

a) vi è una grossolana e sempre più intollerabile, sul piano dell’uguaglianza tributaria e dell’equità orizzontale, disparità tra redditi fondati sul capitale, tassati con miti aliquote proporzionali (peraltro tutte diverse tra loro!) od esentati, e redditi di lavoro che pagano aliquote progressive;

b) l’Irpef progressiva sui redditi di lavoro (perdonatemi, ma non riesco più a chiamarla "sul reddito complessivo") è già ad aliquota marginale proporzionale, cioè flat, su redditi superiori a 75 mila euro, ma in realtà in buona sostanza già a partire da 28 mila euro. Tutta la progressività si gioca sui primi tre scaglioni, e si scarica sui redditi medio-bassi (sarà ottimale questa struttura?);

c) l’aliquota è già flat, cioè proporzionale, per una lunga serie di redditi: agrari (oggi addirittura esentati), da locazioni di lungo o breve periodo, su interessi e proventi finanziari, su capital gains (tassati al 26 per cento, ma affrancabili con aliquote simboliche, oppure esenti se di lungo periodo - PIR), su plusvalenze immobiliari (quando non esentate). E ancora su redditi derivanti da attività, come quelli degli autonomi “minimi” o di imprenditori individuali e società di persone che possono optare per l’aliquota societaria del 24 per cento, rinviando sine die o evitando del tutto il prelievo progressivo. E poi sui carried interest (elementi della retribuzione di individui ad altro reddito), sui redditi percepiti da soggetti non residenti, su titolari di alti redditi che trasferiranno la residenza in Italia (questi pagheranno una lump-sum, cioè - paradossalmente! - un’imposta ottimale), forse a breve sui pensionati emigrati in Italia da altri Paesi, etc.

d) non vi è un'esenzione generalizzata del “minimo vitale” né alcun sussidio agli incapienti;

e) vi sono assai pochi individui che dichiarano redditi elevati, anche perché i titolari di redditi veramente elevati li conseguono di solito nella forma di redditi immobiliari, capital gains, etc. o li “mascherano” in strutture societarie o trust utilizzati per attività di godimento;   

f) il sistema si è formato per stratificazioni successive che rendono illeggibili le aliquote effettive e quelle marginali, e che ne hanno aumentato la complessità e le distorsioni.

In questa situazione, il passaggio a una flat tax con imposta negativa e/o sussidio agli incapienti non appare - a maggior ragione - affatto irragionevole. Al contrario l’obiezione centrata sulla presunta "non ottimalità” è mal posta, sia perché una tale obiezione può essere mossa a qualsiasi struttura delle aliquote, sia perché l’efficienza non è l’unico parametro cui devono e possono, per ragioni di fattibilità politica, conformarsi gli ordinamenti tributari.

Detto questo, ci si potrebbe però chiedere perché mai, anche ad ammettere un’aliquota flat, dovrebbe essere “ottimale” o comunque preferibile un tasso d’imposta del 25 per cento, anziché, ad esempio, del 15 o del 35. Ora, premesso che la scelta dell’aliquota (o delle aliquote) è una scelta eminentemente politica - come visto l’optimal taxation è solo di parziale aiuto - che dipende in buona parte da vincoli di gettito e preferenze redistributive, data l'attuale situazione italiana la scelta dell’aliquota unica (sempre che si volesse adottare il modello della flat-rate tax) deve tendenzialmente rispettare una serie di vincoli che orientano razionalmente la scelta. E cioè:

1) un primo vincolo alla fissazione dell’aliquota dipende dal livello della deduzione e della fascia esente. Difficilmente questa può essere abbassata rispetto all’attuale livello di esenzione fissato per lavoro dipendente e pensione, cioè sul “minimo vitale” oggi consolidato. Inoltre con l’aliquota unica l’effetto di progressività si ottiene con le deduzioni alla base, dunque queste devono essere sufficientemente elevate anche per non correre rischi di una declaratoria di incostituzionalità;

2) la transizione alla flat tax non può avvenire a parità di gettito, giacché tutti devono avvantaggiarsene. Altrimenti a guadagnare sarebbero solo i titolari di redditi bassi e (in misura maggiore) di redditi elevati, con aggravamento della posizione della classe media, e impossibilità di ottenere il consenso su una simile proposta;

3) se deve avvenire riducendo il gettito, e soprattutto la pressione sul lavoro per tutti i livelli di reddito, la riduzione non può però essere tale da mettere in discussione la tenuta dei conti pubblici. La riduzione deve cioè poter essere coperta con revisioni/tagli di spesa di entità plausibile (sappiamo quanto sia difficile ridurre la spesa pubblica italiana), oppure con spostamento del prelievo su altri cespiti;

4) tra i vantaggi della flat tax - in termini di eliminazione di arbitraggi e uso “elusivo” di strutture intermedie - vi è appunto l’unificazione delle aliquote per le diverse categorie di reddito, che oggi (o almeno le principali) passano in un intorno del 21-26 per cento, nonché con l’allineamento all’aliquota sul reddito societario, fissata dal 2017 al 24 per cento;

5) a loro volta le aliquote sul reddito societario e quella sui redditi di capitale sono esposte alla concorrenza internazionale, dunque non possono essere elevate se non col rischio di un deflusso di capitali;

6) l’aliquota, per produrre un incentivo al lavoro sulla maggior parte degli individui, deve tener conto (se possibile essere inferiore) dell’attuale aliquota marginale media, che se non sbaglio è di poco superiore al 27 per cento.

Insomma, in un delicato tentativo di contemperare equità, efficienza e vincoli di bilancio, l’aliquota del 25 per cento è certamente indicativa (non potrebbe essere diversamente, trattandosi di una scelta rimessa a un eventuale decisore politico), ma dovrà comunque essere fissata in un suo intorno:  ecco perché non potrà essere del 15 o del 35 per cento, come qualcuno si è chiesto col fine di insinuare l'arbitrarietà dell'indicazione.

mercoledì 19 luglio 2017

Flat tax, solo ideologia?

Il dibattito fin qui sviluppatosi sulla Flat tax e sulla proposta dell’Istituto Bruno Leoni ha registrato variegate opinioni, sia favorevoli che contrarie: tra queste ultime, alcune hanno evidenziato specifici “limiti” della proposta (ad esempio il suo carattere indeterminato in alcuni aspetti, come nel finanziamento degli enti locali o nel decalage delle deduzioni familiari). 
Altre invece hanno rigettato con fastidio l’idea della progressività per deduzione, per una presunta superiorità assiologica della progressività ad aliquote graduate, o sulla base dell’argomento (fallace) incentrato sull’art. 53 comma 2 della Costituzione (che richiede generici “criteri” di progressività, oltretutto riferiti al “sistema tributario” e non alle singole imposte). 
Altre ancora hanno posto in dubbio, in modo legittimo e con sano realismo, la fattibilità politica di un disegno del genere, dato che lo stesso si regge soltanto sul presupposto di una contestuale riduzione di spese nell’ordine (non lieve) di 25 miliardi annui.
Da ultimo, la Flat tax in generale, e la declinazione che ne ha dato l’IBL in particolare, è stata derubricata a modello impositivo puramente ideologico, ad “atto di fede” non razionalizzabile e dunque nemmeno comprensibile con strumenti “scientifici”. Si è rilevato in specie l’impossibilità di dimostrare l’ottimalità di una flat tax, a riprova del carattere meramente ideologico (ultraliberale) della proposta (così, da ultimo, Alberto Bisin, Tutti i limiti della flat tax, in Repubblica del 19 luglio 2017).
Quest'ultimo tipo di obiezione non è affatto una novità. Come osservavo in un recente scritto sull'argomento, il dibattito sulla flat tax appare ovunque fortemente polarizzato: se i promotori della flat tax, nel nostro come in altri paesi, tendono a esaltarne i vantaggi e le virtù salvifiche, sul versante opposto le critiche assumono sovente toni sdegnati, di demonizzazione o dileggio, concludendosi in un giudizio di inattuabilità, già in astratto, della transizione a una flat tax, e in una accusa di populismo per chi la sostiene.
La connotazione politico-ideologica che ha finito ovunque per assumere il dibattito sull’imposta piatta è per un verso logica e comprensibile: basti del resto scorrere i resoconti storici sulle polemiche che hanno accompagnato in molti Paesi la transizione dalle imposte sul reddito ottocentesche e proporzionali, a quelle novecentesche ad aliquote (ad un certo punto anche fortemente) progressive. Il dibattito proporzionalità vs. progressività è stato ovunque un dibattito acceso su temi sensibilissimi per l’opinione pubblica: quanto cioè fosse giusto far concorrere gli individui più abbienti, arricchitisi enormemente in frangenti storici in cui le imposte sul reddito non esistevano o avevano aliquote simboliche, a fronte dei nuovi impegni di spesa assistenziale assunti dagli Stati sociali.
Il processo di rimozione che oggi diversi commentatori sembrano assumere nei confronti della flat tax, ancorché nella declinazione welfarista che ne ha dato l’Istituto Bruno Leoni (che si prefigge di integrare il sistema tax and benefit in un unico strumento: un’imposta ad aliquota unica con integrazione - sussidio - dei redditi inferiori a un livello di sussistenza “minimo vitale” e imposta negativa sulla differenza tra quel livello e il totale delle deduzioni accordate su base familiare), non pare tuttavia particolarmente sensato e rischia paradossalmente di consolidare lo status quo del sistema fiscale italiano confermandone in modo fatalistico la irriformabilità.
Perché è sbagliata l’obiezione ideologica? Da un lato, la critica rivolta alla flat tax, e l’indimostrabilità della sua ottimalità, andrebbe allora rivolta anche al modello dell’imposta ad aliquote progressive: qual è il reale fondamento dell’utilità decrescente dei redditi di maggiore ammontare? Come si possono comparare le curve di utilità di diversi individui? Come e a che livello devono essere determinati gli scaglioni e le aliquote progressive? Senza contare, poi, che l’ottimalità delle imposte con aliquote graduate è stata seriamente messa in discussione dagli studi sull’Optimal Taxation (Mirlees e altri), secondo cui l’efficienza richiederebbe addirittura un andamento regressivo del prelievo sugli scaglioni più elevati.
L’obiezione ideologica è insomma ribaltabile anche sul “terreno avversario”, cioè nei confronti dell’imposta ad aliquote progressive, il cui contenuto “ideologico” è semmai ancora maggiore: come qualcuno ha rilevato in passato, una volta che si abbandona il principio di proporzionalità per quello di progressività ci si mette in navigazione in un mare in tempesta senza bussola e senza timone. 
In termini meno immaginifici: chi ci dice qual è il livello ottimale delle aliquote marginali sui redditi più elevati? Come si tiene conto dell’effetto-sostituzione che aliquote elevate inducono nei comportamenti individuali? E’ giusto o meno utilizzare aliquote quasi-confiscatorie, à la Piketty, per evitare il prodursi di rendite asseritamente ingiustificate? E come si fa ad evitare che, dato il principio di uguaglianza tributaria, vengano colpiti da aliquote proibitive anche redditi elevati ma pienamente meritati? Non vi sono risposte univoche a questi interrogativi, e la stessa progressività è stata spesso giustificata con generici richiami all’equità: il che però appunto non spiega perché sarebbe “equo" un prelievo differenziato su redditi di diverso ammontare, se non ricorrendo a una tautologia e dunque all’ideologia (e ovviamente alla teoria del sacrificio, affascinante quanto indimostrabile). 
Mi pare curioso, poi, che da un lato si accusi la flat tax di voler fare un “regalo ai più ricchi”, o di essere scarsamente progressiva, ma dall’altro si proponga (come fa Alberto Bisin) di abbassare le imposte sui redditi e di aumentare quelle sui consumi, che come noto hanno un effetto regressivo in quanto incidono maggiormente sui redditi dei soggetti meno abbienti. A meno che non si voglia proporre l’imposta progressiva sulla spesa complessiva, come quella teorizzata da Kaldor, di cui però non si sono mai avute applicazioni concrete per le sue insormontabili difficoltà progettuali. 
La seconda ragione che rende fuori luogo accusare la flat tax di possedere una base puramente ideologica è che tale accusa blocca la comprensione degli elementi di razionalità dell’imposta piatta, e il fatto che la desiderabilità di un cambiamento dipende in buona misura dal grado di soddisfazione per l’esistente. 
Il dirimpettaio in carne e ossa della flat tax e della progressività per deduzione con esenzione universale del minimo vitale non è, come forse qualcuno ancora pensa, la comprehensive income tax, l’imposta personale progressiva sul reddito complessivo, che è rimasta - specie in Italia - confinata nei dibattiti teorici, bensì un farraginoso e demenziale sistema di imposte speciali e proporzionali, con aliquote ogni volta diverse, sui redditi di categoria (dei terreni, dei fabbricati, dei capitali finanziari - interessi, dividendi e plusvalenze - di piccole imprese e lavoratori autonomi, di peculiari elementi della retribuzione percepiti da soggetti ad alto reddito, dei soggetti non residenti, di quelli impatriati per sfruttare regimi agevolativi, e così via), accanto a un’imposta speciale progressiva sui soli redditi di lavoro, che tassa pesantemente e in modo progressivo quelli  medio-bassi, e in modo proporzionale quelli elevati, in quella che è stata icasticamente chiamata una “progressività rovesciata”, con una aliquota marginale sostanzialmente piatta da 28 mila euro ad infinito.
Ecco, appunto, mi chiedo: dov’è l’ottimalità dell’Irpef odierna? Dov’è l’equità e l’attenzione per i più deboli in un sistema che concede l’esenzione del minimo vitale in modo selettivo, violando l’art. 53 primo comma della Costituzione sul principio di "capacità contributiva” (formula che come noto fu scelta perché la stessa consentiva di tutelare i redditi minimi dal prelievo fiscale)? Qual è la risposta data al problema degli incapienti, evidenziato da ultimo dal bonus 80 euro? Dov'è l’attenzione per il lavoro in un ordinamento che effettua una discriminazione qualitativa dei redditi alla rovescia, concedendo miti aliquote proporzionali ai capital income e tartassando con aliquote progressive i labour income già a partire da bassi ammontari? 
La flat tax, specie nella versione welfarista proposta dall’Istituto Bruno Leoni, risponde in modo razionale e non ideologico a molti di questi problemi: ripristina l’equità orizzontale tassando allo stesso modo tutti i redditi; esenta in modo universale i redditi minimi; sostiene gli incapienti con l’imposta negativa; integra i redditi inferiori al minimo con un sussidio; mantiene una ragionevole progressività migliorando l'indice di Gini rispetto alla situazione attuale; semplifica il sistema eliminando arbitraggi sulle aliquote, splitting dei redditi e intestazioni di comodo; consente il passaggio dall’individuo alla famiglia come unità impositiva; introduce elementi di efficienza oltre che di maggiore equità. E indica la perdita di gettito (non 100, ma 25-30 miliardi) da coprire con tagli di spesa, rinviando - senza inventare nulla - ai lavori dei commissari alla spending, non già con il ricorso a nuovo indebitamento o chiamando in aiuto l’ineffabile curva di Laffer.
Mi pare inoltre che una proposta del genere "inverta l’onere della prova": se ci sono in Italia dei fautori, come è giusto che sia, della comprehensive income tax, dell’imposta personale progressiva sul reddito complessivo, indichino delle strade per riformare l’Irpef, dicano chiaramente come tutelare i redditi minimi, come riassorbire le cedolari secche nella base imponibile Irpef, come combinare la tassazione alla fonte con la dichiarazione di questi redditi, che cosa fare delle tax expenditures e del problema degli incapienti, come attuare una reale progressività sui redditi davvero elevati, sgravando quelli medio-bassi, come ridurre l’elevato cuneo fiscale sul lavoro, come attuare la discriminazione qualitativa sui redditi di fonte patrimoniale, e così via.
Fino ad allora, della flat tax si potrà dire che non è realizzabile perché la spesa non si può toccare, o si potranno giustamente evidenziare specifiche criticità o difetti della proposta, che del resto è solo la base per una discussione. Mi sembra invece che rigettarla in toto in quanto "puramente ideologica” non faccia fare alcun passo avanti, condannandoci, aldilà delle intenzioni di chi la critica, allo status quo di un ordinamento tributario ingiusto e sempre più demenziale.

Toh, c’è un buco nel gettito sugli extraprofitti: “intollerabile elusione” o riflesso della sospetta incostituzionalità della norma?

La reazione indignata per quella che è stata definita una “intollerabile elusione” perpetrata dalle imprese destinatarie dell’imposta straor...