venerdì 9 dicembre 2016

Referendum consultivo per uscire dall’Euro, l’ipotesi dell'irrealtà

In questi giorni è tornata alla ribalta l’idea del referendum consultivo sull’ipotesi di uscita dall’euro, rilanciata da alcune forze politiche. 
Evidentemente queste ritengono che il fatto che l’art. 75 Cost. menzioni soltanto il referendum abrogativo, non sia di ostacolo alla proposizione di un referendum con valore consultivo. Se la Costituzione non prevede un referendum di questo tipo, d’altra parte non lo vieta. Con legge ordinaria si potrebbe dunque indire un referendum consultivo, che non avrebbe valore giuridico vincolante per il Parlamento, ma soltanto un significato politico, orientando le decisioni future dell’organo legislativo, un po’ come accaduto con il referendum sulla Brexit.
Tuttavia, ad un più attento esame questa visione si rivela semplicistica. Nelle discussioni all’Assemblea costituente, l’opzione del referendum consultivo venne esaminata ma espressamente esclusa. Mortati riteneva che il referendum consultivo si dovesse scartare, "perché il popolo, essendo il più qualificato organo politico dello Stato democratico, non potrebbe non vincolare, data l'autorità inerente alle sue pronunce, le quali solo apparentemente si potrebbero chiamare pareri”. Il Presidente dell’Assemblea, Terracini, aggiungeva che "il referendum consultivo avrebbe anche conseguenze gravi, in quanto obbligherebbe la Camera a sciogliersi se il risultato fosse contrario, perché dovrebbe ritenersi che essa non rispecchiasse più la maggioranza della Nazione. Ritiene che si possa decidere — senza arrivare ad una votazione — sull'opportunità di non considerare, nella Costituzione, il referendum consultivo”. Nella presentazione del progetto alla Commissione, Mortati ribadì di aver "escluso qualsiasi caso di referendum consultivo per la ragione, già altre volte da lui esposta, che il popolo non è un organo consultivo”. Si temeva cioè un cortocircuito tra popolo e assemblee legislative rappresentative; inoltre, se la sovranità risiede nel popolo, sarebbe stato poi contraddittorio ammettere che la sua volontà, espressa attraverso un referendum, non avesse poi valore vincolante e cogente, con conseguenze sul piano istituzionale. L’idea era insomma che il referendum consultivo avesse comunque un significato giuridico, e non soltanto politico, e che avrebbe alterato i meccanismi della democrazia parlamentare rappresentativa, rischiando di esautorare le Camere dai loro poteri. Si pensi del resto a quanto sta accadendo in Gran Bretagna a seguito del referendum sulla Brexit e della pronuncia dell’High Court sulla necessità di una delibera parlamentare, vista dai media britannici come un attentato alla sovranità del popolo, che si è già espresso e la cui volontà non potrebbe più essere disattesa.
Anche per la nostra Corte Costituzionale, del resto, pronunciatasi con sentenza n. 118/2015 sulla legge della regione veneto che istituiva un referendum su temi connessi all’indipendenza o alla richiesta di maggiore autonomia, " è giuridicamente erroneo equiparare il referendum consultivo a un qualsiasi spontaneo esercizio della libertà di manifestazione del pensiero da parte di più cittadini, coordinati tra loro. Il referendum è uno strumento di raccordo tra il popolo e le istituzioni rappresentative, tanto che si rivolge sempre all’intero corpo elettorale (o alla relativa frazione di esso, nel caso di referendum regionali), il quale è chiamato ad esprimersi su un quesito predeterminato. Inoltre, anche quando non produce effetti giuridici immediati sulle fonti del diritto, il referendum assolve alla funzione di avviare, influenzare o contrastare processi decisionali pubblici, per lo più di carattere normativo. Per questo, i referendum popolari, nazionali o regionali, anche quando di natura consultiva, sono istituti tipizzati e debbono svolgersi nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione o stabiliti sulla base di essa.  
Dunque, diversamente dalla possibilità di referendum regionali di tipo consultivo, ammessi dall’ampia formula dell’art. 123 Cost. e dagli statuti regionali, un referendum consultivo nazionale non sembra compatibile con l’attuale assetto costituzionale, almeno se si vuole assegnare un peso alle decisioni assunte dall’Assemblea costituente e allo spirito sottostante all’art. 75. Nel precedente del 1989, del resto, la richiesta di un referendum consultivo sul tema della costituzione europea venne approvata con legge costituzionale. 
Detto questo, ancor meno percorribile appare l’idea di un referendum consultivo - indetto da una legge ordinaria - sull’euro o l’unione europea, cioè su trattati internazionali, dato che per essi l’art. 75 contiene una espressa esclusione. E’ vero che questa si riferisce, com’è ovvio, all’unica forma di referendum ammessa (quello abrogativo), ma non c’è dubbio che una consultazione popolare su materie sottratte all’iniziativa referendaria di tipo abrogativo eserciterebbe, surrettiziamente, una fortissima pressione politica sulle Camere, inducendole ad assecondarne gli esiti o a sciogliersi: la volontà costituente di sottrarre determinate materie a consultazione popolare ne risulterebbe aggirata. Non è un caso, del resto, che negli statuti regionali che prevedono il referendum consultivo, questo venga escluso negli stessi casi in cui è escluso quello abrogativo (cioè in materia di tributi, leggi di bilancio, trattati internazionali, etc.).

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